Il Faina (Tratto dal libro: SUSSURRI NEL VENTO di Luciana Rigoni)
In quell'anno del terzo decennio del 1300, l'estate aveva indugiato a lungo prima di lasciare il passo all'autunno e, benché fosse già ottobre, l'aria conservava ancora un po' del tepore della passata stagione.
Una delle due campane del piccolo ed esile campanile della parrocchiale di San Giorgio, suonava gli ultimi rintocchi dell'Ave Maria della sera.
Era ormai buio, quando dalla Sosta della Valle, uscirono a gruppi, chiacchierando, gli ultimi Credenzieri e i Consoli della Comunità che si erano radunati a Consiglio per discutere sul trasporto verso Briga, delle balle appena arrivate dal Ducato di Milano.
La parte anteriore della Sosta era a portici sostenuti da colonne quadrate, il soffitto era a volte e la parte posteriore, chiusa, serviva da magazzino per le merci in transito.
Alla fioca luce delle torce appese al muro, si poteva riconoscere l'alta statura di Zanolo Trivello di Cattagna, la sagoma bassa e tondeggiante di Zanino della Fontana, il cappellaccio a sghimbescio di Minolo di Marzo di Drugogna; si udiva la voce profonda di Anselmo di Bertonio e l'allegra risata di Giacomo di Broello.
Alcuni si salutarono e s'avviarono verso il Rì. Altri si erano già dileguati fra le case di Varzo.
Solo, appiattito nell'ombra, fra gli stretti vicoli che portano alla Tone, un uomo era rimasto nascosto come chi spia: e forse stava spiando. Era costui, un essere piccolo di statura, magro, col viso scavato, un occhio guercio, mal vestito e male in arnese, zoppo ad una gamba per una lontana frattura mal rinsaldata.
Una corta barba a punta, gli ornava il mento, accentuando il suo aspetto sinistro. Nessuno conosceva il suo vero nome, da quale località provenisse e la sua età; ma tutti lo conoscevano per il soprannome di Faina: epiteto quanto mai azzeccato perché, come l'animale a cui si riferiva, era furbo, svelto, silenzioso ed infido.
Faina, dunque, nascosto e protetto dal buio, aveva ascoltato dai Credenzieri e dai Consoli riuniti, quanto gli bastava per sapere che certe balle di mercanzia dovevano essere trasportate oltre il Sempione.
Ma voleva saperne di più. Col suo passo claudicante ma veloce e silenzioso, salì fra le case nella breve strettoia che lo portava nel cortavolo della Torre.
Nel massiccio fabbricato ad essa annesso, si trovava una taverna dove si radunavano i cavallanti, a bere, a mangiare un boccone e a prendere accordi per i viaggi di trasporto delle balle. Anche Faina, un tempo, aveva posseduto un cavallo da soma.
Era una bella bestia, robusta e possente. Insieme avevano valicato il Passo cento e cento volte, con importanti carichi, alcuni diretti a Briga, altri da Briga al Borgo di Domo.
Poi, essendo stato scoperto a rubare e a depredare altri cavallanti più deboli, non aveva più avuto incarichi e tutti lo evitavano come si evita una serpe.
Faina, dunque, arrivato alla taverna, entrò silenzioso; nessuno gli prestò troppa attenzione. Si sedette a un tavolo vuoto, in un angolo del locale scarsamente illuminato e si fece portare dei vino.
Sembrava assorto. Ma più che gustare il vino, tendeva l'orecchio a raccogliere i discorsi dei cavallanti.
L'esclusione da quell'attività lo aveva profondamente umiliato
La sua mente non aveva mai accettato la condanna del Consiglio Generale, e col passare dei tempo, il risentimento che covava dentro di sé, si era tramutato in odio e desiderio di vendetta.
A tutto questo pensava mentre trangugiava gli ultimi sorsi di vino. Ormai aveva ascoltato quanto voleva sapere per mettere in atto il suo piano di rappresaglia. Adesso sapeva che fra qualche ora, verso le otto, due cavallanti sarebbero partiti verso il Sempione con tre cavalli carichi di balle preziose da consegnare a Briga.
Erano le sei di sera: se si fosse mosso subito, avrebbe avuto due ore di vantaggio su di loro. Si alzò, paga l'oste e uscì furtivo, come era entrato. Gli uomini occupati a bere,discutere e ridere, neanche lo notarono.
Faina, appena fuori, aveva nel cervello, già ben delineato il suo piano. Scese verso il Rì che oltrepassò sull'unico ponte di legno e incominciò a salire lentamente, nel buio, verso Alneda. Arrivato a San Rocco di fece più circospetto perché avrebbe dovuto passare m mezzo alle case e non voleva proprio farsi vedere da qualcuno. Aumentò l'andatura, tranquillizzando se stesso che a quell'ora la gente stava consumando la cena.
Scese verso Fontana, passa sotto Bertonio e quando fu lontano dagli abitati, si fermò un momento; doveva prendere una decisione: sarebbe stato meglio percorrere la strada normale di Bosco Broggio per Bugliaga, Frassinodo, Kellenhorn, Engeloche poi su al Passo, con il rischio di farsi notare da qualche poco prevedibile nottambulo; o era più saggio, anche se più pericoloso,per l'attuazione del suo piano criminoso, passare dalla Roccia Ciorcino, inoltrandosi fra le Gole di Gondo e arrampicarsi finoal Passo, costeggiando il torrente? Ci pensò poco e subito decise per la seconda strada. Si era appoggiato al tronco di un noce e si guardò attorno. Si accorse che non si vedevano più le stelle: una leggera nebbiolina, gravava sulla valle.
" Meglio! - pensa - nessuno mi vedrà."
Sapeva di essere in vantaggio sui cavallanti, ma era meglio non attardarsi ancora: avrebbe potuto incontrare difficoltà lungo il cammino. Ora la notte era profondamente buia.
Scese verso Ponte Santino, attraversò la Cairasca; da Ponte Cantone attraversò anche la Diveria e poi incominciò a salire.
Non faceva fatica: era abituato. Arrivo a Roccia Ciorcino, scese su Iselle mantenendosi prudentemente dietro l'abitato; passo San Mareo, Gondo e salì verso il Dorf inoltrandosi nelle terribili Gole. Qui il buio lo avvolse quasi fisicamente; sentiva, senza vederlo, il torrente scorrere impetuoso, ora al suo fianco, ora molto più in basso di dove si trovava.
Si fermò per prendere fiato e in quel nero che lo avviluppava, in cui il solo rumore era il fragore dell'acqua tumultuosa, lo assalì il terrore che gli attanaglio le budella. Era il terrore dell'oscurità? della solitudine? o piuttosto il terrore improvviso di ciò che si preparava a compiere? Un senso irrefrenabile di nausea gli serrò la gola e lo fece vomitare.
Sudava e l'aria fredda della notte gli gelava il sudore sulla pelle. Fece uno sforzo tremendo e si rimise in cammino.
Arrivò al Villaggio con un senso di sollievo, sapendo che qui c'erano uomini, ma volutamente, anche questa volta, se ne tenne lontano.
A Engeloch, dove arrivava la strada proveniente da Trasquera, si concesseancora una sosta. Si appoggiò ad un larice per lasciar riposare la gamba offesa che ora gli doleva. Guardò in alto. La nebbia si era dissolta e brillavano le stelle.
Si sentì rincuorato. Riprese la salita. Sapeva di avere più di un'ora di vantaggio sui cavallanti.
Verso mezzanotte arrivo al Passo: uno strato di neve fresca copriva tutto. Faceva molto freddo. Un insistente vento gelido, soffiava dall'Hubschhorn e gli penetrava attraverso i vestiti, fino alle ossa. Si fermo ed attese.
Fra poco la carovana da Varzo, sarebbe arrivata e la sua vendetta, consumata.
Questo pensiero lo assillava, sconvolgendogli il cervello: sentimenti di odio, di terrore, di sete di sangue finalmente appagata e insieme desiderio angoscioso di fuga, si alternavano in una girandola che lo faceva impazzire.
Il tempo, sembrava si fosse fermato. Solo il battito del suo cuore si faceva via via più veloce fino a soffocarlo.
In lontananza si sentirono rumori di zoccoli nella neve e voci di uomini. Di colpo riacquistò la lucidità. Con un balzo, si nascose dietro un masso a fianco della strada e con la mano estrasse il pugnale che portava alla cintola.
Ormai i cavallanti erano a pochi passi da lui; una calma irreale lo aveva invaso. Vide avanzare un cavallo; dietro, il primo uomo a piedi; poi due cavalli e infine, il secondo uomo che chiudeva la fila.
Li lasciò passare tutti davanti a sé; poi, con un balzo silenzioso arrivò alle spalle dell'ultimo uomo e con un colpo violento e preciso, gli affondò il pugnale fra le scapole.
La lama penetrò fino all'impugnatura e l'uomo rollò senza un grido.
Recuperò l'arma e col passo felpato e veloce dell'animale di cui portava il nome,si portò alle spalle del primo uomo e colpì anche questo, allo stesso modo.
Diede la voce ai cavalli che si fermarono. Ansimava, ma sul suo ghigno dallo sguardo folle, si poteva intuire la sua soddisfazione.
Riposò, fece bere i cavalli e col sorgere del sole entrò in città, dove finalmente consegnò il carico e ritirò i soldi: la sua vendetta era perpetrata.
Quel che successe dopo, nessuno lo seppe mai. I cadaveri furono trovati da altri cavallanti in transita.
L'assassinio potè presumibilmente essere fatto risalire al Faina, ma di lui più nessuno ebbe notizia. Non lo si vide più e parve, da quel momento, essersi dileguato nel nulla.