San Giorgio alla battaglia di Vallè (Tratto dal libro: SUSSURRI NEL VENTO di Luciana Rigoni)
Era la primavera del 1250 e il Vescovo di Novara, Sigibaldo, seduto sull'alto scranno nella sua sala privata, stava rigirando nervosamente fra le mani, la missiva appena ricevuta da Enrico Vescovo di Raron nel Vallese.
La luce del candelabro appoggiato sul pesante tavolo di rovere, illuminava con ombre sfumate, la bella barba grigia del prelato e faceva risaltare le rughe, ora più profonde, che solcavano la sua fronte.
Era molto preoccupato, Sigibaldo, perché Enrico di Raron, gli sottoponeva la decisione su gravi problemi di confine tra Vallesani e Valdivedrini; problemi che al Vescovo di Novara sembravano privi di una logica soluzione, senza l'intervento armato.
Aveva più volte cercato di prendere tempo, di discutere, di trovare un espediente o un sistema diverso, ma ogni volta incontrava la determinazione di Enrico a passare a vie di fatto. Si rendeva conto, Sigibaldo, che ormai ogni tentativo era fallito.
Tirò energicamente il cordone della campanella e chiamo a se Matteo da Biandrate e Carlo da Vogogna, due suoi uomini fidati e, mentre al primo consegnò un breve e secco messaggio per Enrico, ordinò al secondo di recarsi il più velocemente possibile in Val Divedro con il compito di radunare degli uomini bene armati e farli trasferire all'Alpe Vallé, pronti per un eventuale scontro con i Vallesani.
Congedati i due emissari, s'appoggiò stancamente allo schienale dello scranno e sospirando, abbassò il mento sul petto: ormai la guerra era inevitabile e il suo cuore di pastore, ne soffriva profondamente.
Era maggio inoltrato quando in Val Divedro i preparativi per il prossimo scontro armato con i Vallesani, furono ultimati.
Centocinquanta uomini di Varzo e Trasquera, divisi in squadre, ai comandi di Giovannino di Pianezza, Giacobino di Drugogna, Zenino Rigone, Giovannino di Piattogno, Giacomo di Broello, Minolo di Marzo, Delaiolo del Rosso di Schiaffo, si diressero all'Alpe Vallé.
Il comandante in capo era un giovane trasquerese. Alto, dal corpo ben fatto e aitante, dai capelli scuri e ondulati che incorniciavano un bel viso intelligente con occhi blu come il cielo che sovrasta il Pizzo Valgrande; dimostrava più dei suoi ventiquattro anni, proprio per quel cipiglio fiero e determinato che lo caratterizzava: era Guglielmo di Chiezzo.
Faceva parte del gruppo, anche Prete Gioanni Antonio Gravona, uno dei curati della Chiesa di San Giorgio.
Le squadre armate, giunte a Vallé, si divisero su varie postazioni. Gli uomini di Pianezza si accamparono fra i casolari della parte bassa dell'Alpe; Giacobino con i suoi salì alle Balmelle; la squadra di Rigone arrivo ai Pianezzoni; i soldati di Piattogno, con quelli di Broello si inerpicarono di guardia alla Bocchetta delle Possette, mentre Minollo e Delaiolo con i loro uomini salirono verso il Teggiolo.
Il giovane comandante Guglielmo con pochi fidati, si spinse verso il Pizzo Valgrande.
Il sole era tramontato da un pezzo. Le prime ombre della notte erano salite lentamente dalla Vallé ed ora solo le cime più alte conservavano l'ultima luce rosata del giorno che moriva.
Prete Gioanni, avvolto nel suo misero saio, pregava silenziosamente per tutti quegli uomini che ora tentavano di dormire nella loro prima notte da guerrieri.
I più giovani presero subito sonno. I più anziani erano nervosi; sentivano quasi palpabile, il pericolo incombente; rincorrevano pensieri che, come in un caleidoscopio, portavano alla loro mente, ora la loro famiglia, ora la vita passata, ora la battaglia che si sarebbe combattuta fra sogni di gloria e terrore di morte.
Anche Guglielmo, lassù fra le rocce, sentiva sulle sue spalle il greve fardello della responsabilità di tutte quelle vite a lui affidate, ma non poteva fare a meno di correre col pensiero a Giovannina, la sua ragazza, lasciata in lacrime a Chiezzo. L'avrebbe rivista?
Sarebbe tornato da lei per sempre? Avrebbe potuto finalmente condividere con lei la sua vita, formarsi una famiglia e vivere in pace fino alla vecchiaia, circondato da figli e nipoti?
La notte era scesa, buia e senza stelle. A poco a poco la tensione cedette alla stanchezza e gli uomini si addormentarono.
Solo le sentinelle vegliavano per loro, rabbrividendo per il freddo, la spossatezza e l'apprensione. Ogni due ore si davano il cambio e appena terminato il turno, piombavano in un sonno pesante, privo di sogni.
Le luci tenue dell'alba schiarirono il cielo dietro la Rossa, poi i colori mutarono da perla a turchese e infine i primi raggi del sole accesero le rocce dei contrafforti del Lago d'Avino.
Gli uomini si alzarono dai miseri giacigli e brontolando eseguirono gli ordini dei loro capi. Non passò molto tempo che un lungo, modulato fischio proveniente dalle Possette , annunciò che il nemico era stato avvistato e stava salendo verso di loro.
Il fischio risuonò e rimbalzò da postazione a postazione. Ora gli uomini erano tutti pronti, armi in pugno e attendevano il nemico per attaccarlo dall'alto dei loro appostamenti. Lo avrebbero accerchiato e battuto. Gli uomini di Vallè sarebbero serviti da riserva.
Guglielmo dall'alto della sua postazione di vedetta, si sentiva stranamente inquieto; gli sembrava che tutto fosse troppo facile, calcolato, scontato e questo sentimento lo rendeva ansioso e agitato.
Si portò con i suoi uomini verso la cresta delle Possette, sopra la Bocchetta, e solo allora vide ciò che proprio non avrebbe voluto vedere: i Vallesani avanzavano su due fronti: uno verso le Possette, l'altro verso il Pizzo Valgrande.
Erano numerosissimi: almeno trecento e armati di balestre.
Guglielmo mandò uomini a chiamare le altre squadre perché si riunissero tutti sulle Possette per contrastare il primo urto, che dopo poco più di un'ora, avvenne, cruento e pesante. I Valdivedrini combattevano all'impazzata, forti come leoni, ma i Vallesani erano in forze preponderanti. Molti morti e feriti erano già sul terreno. I Valdivedrini inesorabilmente iniziarono a indietreggiare, sospinti da quella valanga umana.
Le frecce fischiavano nell'aria; i fendenti di spade ed asce facevano parecchie vittime; il sibilo delle balestre risuonava fra le rocce.
I Valdivedrini avevano ormai perso le postazioni alte e dai Pianezzoni, stavano indietreggiando fino alle Balmelle. Sui prati di Vallè le riserve si preparavano all'ultima difesa. Ad un certo punto, Prete Gioanni si inginocchio sull'erba e, alzate le magre braccia al cielo, a gran voce invocò l'aiuto di San Giorgio, patrono della Vallè.
Mentre i Valdivedrini incalzati dai Vallesani, avevano perso anche le Balmelle, comparve in mezzo ai combattenti, su un cavallo bianco, un soldato rivestito da un'armatura di metallo lucente, armato di una spada e di una lunga lancia.
Era San Giorgio, invocato da Prete Gioanni, che con tre balzi del suo cavallo, si portò da Varzo a Vallé.
Al primo salto, arrivo alla Cappella di Maulone, al secondo alla Purtèia del Teggiolo e al terzo, in Vallè fra i contendenti.
Allora vi fu uno scompiglio nelle file nemiche e i Valdivedrini superstiti, approfittarono di questo sbandamento; si riunirono e si slanciarono in un attacco disperato.
I Vallesani sorpresi da questo impeto, incominciarono a perdere terreno e a risalire verso le Possette inseguiti dai Valdivedrini imbaldanziti. I prati erano cosparsi di feriti e di morti ma il nemico arretrava e infine, disorientato e spaventato, volse le terga e incominciò a fuggire su, verso la Bocchetta e poi giù, a rotta di collo, da dove era venuto.
La battaglia era finita e vinta!
Nessuno si accorse, durante la mischia, che un colpo di balestra aveva colpito Guglielmo in pieno petto.
Caduto riverso sull'erba, gli si appannò la vista; nell'affanno del respiro che gli sfuggiva, rivide, nella nebbia rossa che gli velava gli occhi, il viso dolce della sua Giovannina e poi, il suo spirito esplose dentro una luce accecante e una pace infinita lo avvolse per sempre.
I soldati vincitori avevano pagato la vittoria con la morte del loro giovane capitano.
Dopo che i feriti furono raccolti, i cadaveri vennero sepolti poco sopra Vallè, su un altopiano, in uno spazio esiguo, coperto in primavera, da un tappeto di ranuncoli, circondato da rododendri e annosi larici.
Questo luogo, chiamato Pianezza dei Morti, ha nel centro un masso squadrato, molto insolito, che sembra sia stato messo lì dalle pietose e robuste braccia dei compagni di quei soldati che nella verde conca, persero la vita difendendo la loro valle.
Nei luoghi dove la tradizione racconta che il destriero di San Giorgio, compì i tre salti, sulla roccia sono rimaste, visibili dopo sette secoli, delle strane coppelle che la leggenda vuole siano le impronte degli zoccoli del cavallo del Santo.